Il baldacchino in S. Pietro di Gian Lorenzo Bernini e i baldacchini di Teodoro Fantoni: visita ad limina e rendicontazione diocesana

T. Caruso, Il sinodo di Teodoro Fantoni, Roma 2006, p. li-lii; 124-125; lii-liv 
(20 novembre 2010)

Quel baldacchino bronzeo della basilica di S. Pietro, che Gian Lorenzo Bernini aveva eretto sulla memoria del principe degli Apostoli, chissà quante volte sarà stato visitato e ammirato da Teodoro Fantoni, quando era abate in S. Maria della Pace, nei pressi del Pantheon di Roma. Da ciò la sua premura nel sottolineare la presenza d’un baldacchino nella cattedrale di San Marco e la sollecitudine di crearne lui stesso uno dove mancava, quando nel 1652 fu eletto vescovo di quella chiesa. Beninteso! Diversa n’era la struttura, d’altra natura l’importanza artistica, leggermente differente anche la funzione, ma pur sempre essenziale ed indispensabile ritenuta la sua presenza.
Il baldacchino
La fatica del Bernini nell’erigere quello della basilica vaticana era durata diversi anni: nel 1629 uno scrittore borgognone dava alle stampe un poemetto, in cui esprimeva i più grandi elogi per quelle colonne già visibili in loco da qualche anno, decantandole in un misto fra il più alto senso mitologico e la più ancestrale devozione religiosa; I. G. Vernerey, Urbano VIII Pontifici Optimo Maximo erectis Aeneis columnis Non plus ultra. Ioannes Gvillelmus Vernerey Burgundus, sacrum dicat elogium, Romæ 1629. L’insistente riferimento ai confini dell’orbe conosciuto nell’antichità e le allusioni al capolavoro religioso elevato da Salomone in Gerusalemme, conferiscono alla concezione del Bernini una particolare grandezza e dignità quanto ad ispirazione, ma dichiarata immediatamente ineguagliabile e superiore a tutte le precedenti: Non plus ultra.
 Finalmente l’opera fu inaugurata in occasione del 29 giugno – festa di S. Pietro e Paolo - del 1633, alla presenza di Urbano VIII – Barberini - già sul soglio pontificio da 10 anni: colonne interamente di bronzo, brunito nel fondo e dorato nei rilievi, dalla linea dinamica, anziché statica; tortili, appunto, seguendo il movimento che poteva ancora ammirarsi nelle undici superstiti della antica Pergula della basilica costantiniana, di cui otto Bernini aveva usato per ornare le nicchie delle reliquie realizzate nei mastodontici pilastri della crociera. Magnificamente ornate di motivi vegetali, floreali, faunistici, dai simboli pontifici, particolarmente dall’ordinata triade dei melliferi insetti, che ‘scioglieranno le righe’ soltanto il 29 luglio 1644, come testimonia il monumento funebre del pontefice.
Ecco come l’oratoriano francese Nicolas Bralion a Parigi nel 1669 descrive la magnificenza dell’opera e la munificenza del committente:

«Or ce grand & genereux pape a rendu ce maistre autel de S. Pierre, le plus beau & le plus auguste qui se soit iamais veu, par vne machine d’vn rare & pretieux metail qui l’enuironne & qui le couure. Elle est composée de quatre grandes colonnes d’vne prodigieuse hauteur d’vn grand daiz auec ses pentes, si artistement faites & trauaillées, qu’elles semblent estre d’étofe; de quatre figures d’anges beaucoup plus grandes que nature, qui sont dessus ces colonnes; & enfin d’vne couronne à quatre branches (dont chacune est embrassée de l’vn de ces anges en bas) lesquelles des quatre angles du daiz, duquel le bord fait comme le cercle de la couronne, vont se ioindre en diminuant par enhaut, & s’vnissent à vn globe sur lequel il y a vne croix. Sur le daiz au milieu du bord, tant de la partie de deuant, que de celle de derriere, il y a deux figures d’anges de stature enfantine, qui soustiennent vne thiare papale, & les clefs de S. Pierre; & au milieu de deux autres bords il y a en a de chaque costé vn qui tient l’espée de S. Paul. Les pieds d’estail des colonnes sont de marbre blanc, & le deux faces exterieures de chacun son remplies des armes d’Vrbain VIII, qui sont celles de l’illustre famille des Barberins dont il estoit. Les colonnes sont composées de trois pieces l’vn sur l’autre d’vne si extraordinaire grosseur, que veuës separément hors du lieu où elles sont, ainsi que ie les vis auant qu’elles y fussent, on les iugeroit plus propres à faire des tours que des colonnes; aussi vn homme porroit-il facilement monter du bas en haut par le dedans. et si cette somptueuse machine estoit sur vne place moins vaste que le centre de ce grand temple, & sous vne voûte moins esleuée que celle de son grand dome, elle paroistroit plustost vne forteresse, que l’ornement d’vn autel. Mais elle est dans vne si parfaite proportion à la maiesté de l’vn & de l’autre, qu’il ne se peut rien voir de plus beau & de plus agreable. La couleur de son metail n’est ny jaune clair comme la cuiure, ny verdastre comme la bronze, mais comme entre ces deux, & comme bruny & quasi semblable à ce que nous appellons feüille morte. or bien qu’elle soit d’vne grandeur & grosseur telle que nous la venon de representer; le dessein & la fonte en ont esté faits auec tant d’art & d’ornemens, qu’elle paroist legere & delicate. Car outre que le corps des colonnes va tourna[n]t depuis là bas iusqu’en haut en façon de vice, & que leur premiere  & plus basse partie des trois dont elles sont composées est canelée en façon de lignes spirales le reste de leur hauteur, & de leurs chapiteaux sont enioliuez & couuerts de diuers rameaux de laurier & d’oliue tournoyants, sur lesquels il y a de petites figures d’enfants qui se iouënt, & des abeilles qui voltigent. dauantage, non seulement ces mesmes colonnes, mais tout le reste de la machine, auec ses figures & ornements, est releué par des filets d’or qui courent par tout, & donnent des iours & vn éclat bien plus noble & agreable qu’il ne seroit si tout estoit doré. le dessein & le modele de cette admirable machine furent faits par le Caualier Jean Laurent Bernino florentin peintre & architecte d’Vrbain VIII. & la fonte par Gregoire de Rossi Romain. Quant à la matiere, ce pretieux metail fut pris du haut du portique du pantheon», cfr T. Caruso, Il sinodo di Teodoro Fantoni, Roma 2006, p. LII-LIV; e la traduzione: 
Ora questo grande e generoso papa ha reso questo altare maggiore di S. Pietro il più bello e il più eccelso che sia mai stato visto, con un complesso d’un raro e prezioso metallo che lo circonda e lo copre. Composto da quattro grandi colonne d’una altezza prodigiosa d’una grande  alcova con i suoi (pannelli) pendenti,c così artisticamente fatti e lavorati da sembrare esser di stoffa: quattro figure angeliche molto più grandi del naturale, che sono al di sopra di queste colonne e infine una corona di quattro rami (retto al basso ognuno da uno di questi angeli) i quali dai quattro angoli dell’alcova, il cui bordo costituisce quasi il diadema della corona, vanno a congiungersi diminuendo verso l’alto e si uniscono ad un globo sul quale vi è una croce. Sopra l’alcova in mezzo al bordo sia davanti che da dietro vi sono due figure di angeli d’aspetto infantile che sorreggono una tiara papale e le chiavi di S. Pietro, mentre al centro degli altri due bordi ve n’è un altro da ciascun lato che sostengono la spada di S. Paolo.
I piedistalli delle colonne sono di marmo bianco e le due facciate esterne de ciascuno sono piene degli emblemi di Urbano VIII, cioè quelle dell’illustre famiglia dei Barberini cui egli apparteneva. Le colonne sono composte da tre sezioni sovrapposte l’una sull’altra d’une grandezza tanto straordinaria, che se  viste separatamente  in altro luogo da dove sono attualmente, come io le ho viste, prima che vi fossero collocate, le si crederebbe piuttosto a svolgere funzione di torri che di colonna. Un uomo potrebbe facilmente salirvi dal basso verso l’alto muovendosi all’interno e se questa sontuosa macchina fosse su una piazza meno vasta del centro di questo grande tempio, e sotto una volta meno alta di quella della sua cupola, sembrerebbe piuttosto un fortezza, che l’ornamento di un altare. Ma essa si trova in una così perfetta proporzione in relazione all’una e all’altra, che non si può osservar nulla di più bello e di più gradevole.
Il colore del suo metallo non è né giallo chiaro come il rame, né verdastro come il bronzo, ma come qualcosa di mezzo a questi due, quasi brunito e simile a ciò che da noi si dice foglia-morta. Benché sia di tale grandezza e grossezza come noi l’abbiamo appena descritta, la concezione e la fusione si basano su tanta arte e ornamenti, da sembrare leggera e sottile. Poiché oltre al fatto che il corpo delle colonne va attorcigliandosi dal basso verso l’alto a mo’ di vite, e che la prima parte più bassa delle tre di cui sono composte è scanalata a modo di linee spirali, il resto della loro altezza e i loro capitelli sono impreziositi e coperti da diversi rami di alloro e olivo attorcigliati, sui quali vi sono delle piccole figure di bimbi che si divertono e delle api che svolazzano, Inoltre, non soltanto queste medesime colonne, ma tutto il resto della struttura unitamente alle sue figure e ornamenti è marcata da fili d’oro che corrono dappertutto e danno delle luci e un riflesso molto più nobile e gradevole che non se fosse tutto dorato. La concezione e il modello di questa ammirabile struttura furono prodotti dal cavaliere Giovanni Lorenzo Bernini fiorentino pittore e architetto di Urbano VIII. e la fusione realizzata da Gregorio de’ Rossi romano. Quanto alla materia, questo prezioso metallo fu estratto dall’alto del portico del Pantheon.

Sin dal momento della committenza il papa aveva raccomandato al Bernini che, nello scavo per fondare queste colonne, non si avvicinasse troppo, onde scongiurare qualunque rischio di profanazione della sacra memoria apostolica, in pratica la tomba terragna dell’apostolo Pietro.
I festeggiamenti furono solennissimi e i visitatori che poterono ammirare il monumento lo descriveranno con i termini più variegati: machina, mole, daiz, alcova, baldaquin.
Insomma la principale istanza della normativa Tridentina - protezione della mensa dell’altare da corpi estranei provenienti dai soffitti - era stata qui di gran lunga superata e ampliata all’estremo. L’altare papale del Vaticano costituiva un celeberrimo monumento dal materiale solido, diligentemente lavorato, un gioiello artistico, che mentre proteggeva e sublimava l’ara sopraelevata, esprimeva la venerazione da tributare al terreno sottostante. Ormai non più riducibile, questo, soltanto all’antica fossa in cui era stato deposto il corpo dell’apostolo, ma  all’insieme di molteplici testimonianze dei secoli successivi, traccia indelebile dei pellegrini che avevano visitato le sue reliquie fino ai tre altari pontifici, punto centrale cui far convergere - quale forza centripeta - tutte le energie dell’orbe cattolico, cioè i Limina Apostolorum.
Il 20 dicembre 1585 Sisto V aveva obbligato a tale visita tutti i pastori del mondo a lui soggetti, con cadenza triennale per quelli italiani. Il 22 gennaio 1587, con la creazione delle 15 congregazioni cardinalizie, a ciascuna delle quali aveva affidato un particolare campo amministrativo, obbligava ancora ogni vescovo ad una dettagliata rendicontazione della propria diocesi.
In ottemperanza a queste disposizioni, Fantoni compie la prima visita e presenta la sua relazione il 10 marzo 1656, esattamente a tre anni di distanza dalla sua presa di possesso. Non si pronuncia sui baldacchini. Mala tempora! Come si vedrà dalle successive relazioni.
Nella seconda visita, il 4 novembre 1659, invece scrive a proposito della cattedrale:  
«In particulari sacello à latere Epistolę est erectum Altare pro Sanctissimo Eucharistię Sacramento in Tabernaculo ligneo, foris deaurato intus vero sericeo panno rubei coloris cooperto, cum suo conopeo, et baldachino omni qua decet magnificentia asservato», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., 159;
In una cappella a sé, a destra entrando, vi è l’altare per il santissimo sacramento dell’Eucarestia nel tabernacolo di legno, dorato all’esterno, foderato all’interno da tessuto di seta rossa, con il suo conopeo, e con il baldacchino, custodito con tutta la magnificenza dovuta.
Son trascorsi sei anni dalla sua elezione e si è preoccupato di munire il tabernacolo dell’altare del Sacramento dell’Eucarestia di un adeguato baldacchino, per una migliore e più decente custodia. Dal momento in cui non ne aveva parlato prima, questa premura deve essere attribuita alla sua sensibilità.

Similmente nella relazione del 15 aprile 1665 può rassicurare i cardinali, che il tabernacolo è sull’altare di una cappella apposita, a destra entrando, protetto dal conopeo dai colori liturgici per ogni tempo - dunque quattro - e che lo sovrasta un baldacchino di seta rosso e bianco:
«Sanctissimum Eucaristię sacramentum non tenetur in Altari Maiori, sed ad pręscriptum Ceremonialis Romani reponitur in particulari Cappella ad hunc effectum in cornu Epistolę ędificata, quę est caput parvę navis lateralis, columnis marmoreis clausa. Tabernaculum est ligneum, sed de foris columnis, et statuis hornatum, totumque deauratum, intus verò drappo ex auro texto coopertum cum suo conopeo coloris pro qualitate festorum occurrentium respectivè convenientis, et supra habet Baldacchinum, ex panno serico rubeo, et albo», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., 165;
Il santissimo sacramento dell’Eucarestia non si conserva all’altare maggiore, ma secondo il dettato del Cerimoniale romano, è riposto in una cappella a sé espressamente predisposta, costruita a destra entrando, che è il fondo di una navata laterale minore delimitate da colonnine di marmo. Il tabernacolo è di legno, ma all’esterno è adornato di colonnine e statuette, interamente dorato; all’interno invece rivestito da un drappo intessuto d’oro con il rispettivo conopeo del colore conveniente,  secondo le varie festività occorrenti. Al di sopra vi è il baldacchino, di stoffa di seta, di colore rosso e bianco.
Nell’ultima sua relazione, del 30 novembre 1680, invece ricorda un particolare ancor più interessante. Al suo arrivo in diocesi aveva trovato un baldacchino sul trono vescovile, ma era di colori misti e atto a servire per tutto l’anno; volendo differenziare le varie solennità, egli invece ne fece fabbricare due di colori distinti: uno violaceo per i tempi forti di quaresima e avvento, l’altro bianco da utilizzare per la maggior parte dell’anno.
«Unum tantum Baldachinum mixti coloris pro Sede Episcopali inveni, et ideo non poterat mutari in coloribus iuxtà ritum Sanctę Ecclesię, hinc pro solemnibus festis unum fieri feci de damasco albo, et pro quadragesima, et adventu alium similiter de damasco violaceo. Alia duo paramenta completa de eadem materia scilicet planetas, et dalmaticas. Unum albi coloris, et alterum violacei coloris fieri feci. Quinque pluvialia alba, et unum rubeum, et multas alias planetas pro missis Conventualibus diversorum colorum, non solum prout maiorem gloriam Dei decebat. Tandem Baldacchinum magnum ex damasco coccineo super altare maius cum suis ornamentis exposui», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., 174;
Ho trovato soltanto un baldacchino sulla sede vescovile colorato a fantasia, e così non poteva esser cambiato seguendo i colori dei tempi liturgici secondo il rituale della santa Chiesa; per questo ne feci fabbricare uno di damasco bianco per le feste più solenni e un secondo violaceo, pure di damasco, per quaresima ed avvento. Altre due serie complete di paramenti sacri dello stesso tessuto ordinai di fare, cioè pianete e dalmatica, il bianco e il violaceo. Feci ancora cinque piviali bianchi, uno rosso e uno violaceo, come pure molte pianete per le messe conventuali di diversi colori, non solo come si addice alla maggior gloria di Dio. Infine coprii l’altare maggiore con un grande baldacchino rosso porpora con tutte le sue rifiniture.
In un primo tempo aveva creato dunque il baldacchino per l’altare del SS.mo Sacramento nell’altare della navata laterale, poi si occupò di quello che già al suo arrivo nel 1652 copriva la sede vescovile, di colore amorfo, fabbricandolo in due colori diversi, o meglio fabbricandone due a tinta unita.
Infine ne crea uno completamente nuovo per l’altar maggiore della navata maggiore, dove non era custodita l’Eucarestia, e non strettamente necessario.  Ma questa novità ed originalità del suo operato permette la similitudine con l’altare papale di S. Pietro, che è appunto maggiore e non predisposto per l’Eucarestia, e il baldacchino di Bernini, cui Fantoni dev’essersi ispirato.

La visita ad limina
Nella seconda visita ad limina, del 4 novembre 1659, Fantoni non si reca a Roma di persona, ma invia quale suo procuratore D. Fulvio Catalano, arcidiacono della cattedrale, poiché preferisce rimanere in diocesi ed offrir conforto alle popolazioni nel caso di probabili terremoti. Così si esprime lo stesso Fantoni:
«Non valens personaliter huic muneri satisfacere ex inopia, et propter imminentia terręmotus pericula, quibus, si casus accident (quod Deus avertat) necesse erit varijs spiritualibus, et temporalibus remedijs occurrere. Propterea mitto Fulvium Catalanum huius Cathedralis Archidiaconum, qui partes nostras in hoc casu suppleat, humiliter Sanctitatem Vestram exorando, ut dignetur ea, qua solet, oves suas, benignitate recipere, eum admittere; et Sanctitati Vestrę perpetuam pręcor fęlicitatem», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., 158 ;
Non potendo soddisfare personalmente a questo obbligo per mancanza di mezzi e a causa dei pericoli di probabili terremoti, caso mai si verificassero (Dio non voglia), sarà necessario apportare numerosi soccorsi spirituali e temporali. Pertanto invio Fulvio Catalano arcidiacono di questa cattedrale, che supplisca le nostre parti per questa volta, supplicando umilmente la Santità Vostra che si degni ammetterlo con quella benignità con cui è solito ricevere le sue pecorelle; ed impetro per Sua Santità perpetua felicità.

Interessante notare che Fulvio Catalano – e Fantoni stesso in altre occasioni – intende compiere la visita, recandosi ad ambedue le basiliche, la vaticana e la ostiense, com’è di norma, secondo i relativi diplomi rilasciati quali attestato, cioè il 24 ottobre 1659 in Vaticano e il 26 ottobre in S. Paolo all’Ostiense:
«Pro Illustrissimo […] Theodoro Fantone Episcopo S. Marci […] D. Fulvius Catalanus Archidiaconus […] personaliter visitavit» ASV. Congr. Concilio. Relat. Diœc. 488 A, f. 110 e 111, in cui si annota: Per l’illustrissimo Teodoro Fantoni vescovo di S. Marco [...] D. Fulvio Catalano adempì la visita di persona.
In questo caso osserviamo che molti viaggiatori dell’epoca, proprio nel descrivere la magnificenza del baldacchino di Bernini, mostrano una credenza diffusa all’epoca, che cioè la tomba della basilica vaticana non custodisse solo il corpo di Pietro, bensì la metà dei corpi di ambedue gli apostoli, di Paolo incluso. Giovanni Baglione nella sua opera del 1639 traccia in poche linee la descrizione del baldacchino di S. Pietro:
«Fermandosi poi nel mezo della gran Basilica, si vede l’altar maggiore di S. Pietro, et è di sontuoso Tempio opera sommamente degna; sotto del quale stanno poste le metà de corpi de’ SS. Pietro, e Paolo Protettori di questa gran Città», G. Baglione, Le nove chiese di Roma, Roma 1639, 36; per cui cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., LI;
Altri, quale l’inglese Richard Lassels, riteneva che con “limina” si indicavano non le soglie esterne della basilica (duplicabili allora con quella di S. Paolo), ma solo i gradini sotterranei conducenti alla Confessione, al livello delle Grotte Vaticane. Se così fosse stato, per visitare i sacra limina sarebbe bastato pertanto recarsi alla sola basilica vaticana!
Ecco un inglese anglicano, anch’egli visitatore, che presenta una sua idea storico-archeoloco-teologica:
«On descend dans cette cave par deux escaliers qui ont environ douze degrez ; il y a deux demy-portes par où entrent ceux qui y vont officier ; & je croy que ces portes sont proprement ce que l’an doit appeler Limina Apostolorum. Je sçay bien que generalement parlant, c’est la creance commune que quand an parle de visiter Limina Apostolorum, à quoy les Evesques estoient autres-fais obligez, c’est de visiter l’Eglise de St-Pierre, & que plusieurs sçavant cluteury sont de ce sentiment, que Limina Apostolorum sont les degrez de l’entrée de la grande porte de l’Eglise de Saint Pierre. Toutesfois s’il m’est permis de dire icy ce que j’en pense, je croiray volontiers qu’à proprement parler, Limina Apostolorum sont les degrez qui conduisent à cette cave, parce que j’y trouvay ces mesmes paroles en lettres d’or», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., LI-LII;
Si scende in questo sotterraneo attraverso due scale che hanno circa dodici gradini : vi sono due mezze-porte attraverso le quali entrano coloro che devono celebrare; e io credo che queste porte sono da identificare in senso stretto con ciò che si chiama Limina apostolorum. So benissimo che in generale è credenza comune che quando si dice di visitare i Limina apostolorum, a cui i vescovi erano un tempo obbligati, significa visitare la chiesa di S. Pietro e che molti studiosi son di questa idea, cioè che i Limina apostolorum siano i gradini dell’ingresso della grande porta della chiesa di S. Pietro. Tuttavia se mi è permesso di dire qui ciò che io penso, crederei volentieri che propriamente intesi i Limina apostolorum sono i gradini che conducono a questo sotterraneo, poiché vi ho trovato queste parole in caratteri d’oro.
   Una  traditio comunemente affermata, alla quale questi autori attingono, senza che il rischio di anacronismi possa inficiarne il ragionamento. Vernerey, con deduzione a ritroso, parte dal concetto che nella basilica costantiniana di S. Pietro vi era (non vi fosse!) memoria del tempio di Gerusalemme e aveva cento colonne, ergo anche il tempio salomonico doveva avere un ugual numero di colonne.
Con tali presupposti, la presenza di ambedue gli apostoli, sia pure con metà del corpo e dei gradini che conducono nel sottosuolo con senso di limina, bastava visitare la sola basilica vaticana.
Il tempio di Salomone
D’altra parte - relativamente alla letteratura di questo XVII secolo - giova notare due casi di curioso fondamentalismo. Il primo riguarda la già citata ode di I. G. Vernerey in onore di Urbano VIII, ispiratore, mecenate e committente del baldacchino, il secondo è di un visitatore inglese, J. Evelyn, che visita S. Pietro nel 1644.
Secondo Vernerey il tempio di Gerusalemme costruito da Salomone, apostrofato come “potens sobŏles davidica” (6,24), era costituito da ben cento colonne “centum dedit columnas” (6,23), ma che nel loro insieme sarebbero comunque meno importanti di queste sole quattro del baldacchino berniniano, I. G. Vernerey, Urbano VIII Pontifici Optimo, op. cit., 6.
Su tale presupposto, si riteneva che anche l’antica basilica di S. Pietro avesse cento colonne, poiché si affermava che per costruire la basilica costantiniana fossero state utilizzate anche le colonne (o semplicemente alcune) del tempio di Gerusalemme. Tesi diffusa e suffragata fra l’altro dalla descrizione della basilica di S. Pietro da parte di P. Duval, il quale nel 1660 pubblica a Parigi Le voyage  et la description d’Italie:
«Cent belles colomnes y on esté transportées d’Asie & d’Afrique par les anciennes Empereurs ; 12 colomnes de marbre blanc & autres richesses prises dans le Temple de Salomon par Vespasien, ont pareillement esté mise en cette Eglise», cfr Il sinodo di Teodoro Fantoni, op. cit., 125 ;
Cento belle colonne vi sono state trasportate dall’Asia e dall’Africa da parte degli antichi imperatori ; dodici di marmo bianco e altre ricchezze prelevate da Vespasiano nel tempio di Salomone, sono state ugualmente sistemate in questa chiesa.
Il secondo caso riguarda un autore inglese, J. Evelyn, il quale, visitando la basilica di S. Pietro il 19 novembre 1644, rileva come essa sia l’edificio più grande mai costruito al mondo e forse in ogni tempo, escluso ovviamente - beata ingenuitas! –il tempio di Gerusalemme, esattamente quello salomonico:
“I visited St. Peter’s, that most stupendious and incomparable Basilicum (sic), far surpassing any now extant in the world, and perhaps, Solomon’s temple, excepted, any that was ever built”. J. Evelyn, Diary of Iohn Evelyn, I, London 1879, 138-139;
Ne è profondamente convinto: nessuna costruzione potrebbe mai superare la grandezza salomonica, ovviamente per il fatto che era tanto glorificata nella tradizione biblica.
Una semplice considerazione. Salomone, morto nel 931, aveva portato a compimento l’opera iniziata da suo padre Davide, ma realizzandola prevalentemente in legno, più precisamente servendosi di cedri provenienti dal Libano. A tale scopo aveva stipulato con i Fenici della costa mediterranea contratti commerciali di baratto, sia quanto a forniture di materiali, che a maestranze nella direzione dei lavori.
Il dettagliato racconto di questi accordi con il re Hiram è in 1 Re 4,5-11. La descrizione del tempio, iniziato nel 480° anno dall’uscita dalle’Egitto, comprende le dimensioni e si estende alle sue rifiniture in bronzo e all’arredamento liturgico in materiale prezioso, per concludersi con la sua consacrazione 1 Re 6,1-8,66.
Questo tempio era però stato distrutto dai neobabilonesi nel 587, quando Nabucodonosor sconfisse gli assediati di Gerusalemme e ne deportò a Babilonia la popolazione.
Del secondo tempio, ricostruito dopo la liberazione persiana del 538, secondo l’ordine di Ciro II cfr Esdra 5,13-6,17 e descritto in Ezechiele  41,1-26 nelle sue precise dimensioni, si può dire che fu di transizione, poiché sostituito da un successivo.
Il tempio da cui gli imperatori, et quidem Costantino, avrebbero potuto prelevare qualche colonna sarebbe dunque il terzo, cioè quello costruito da Erode il Grande che regnò dal 40 al 4 a. C. I Giudei ricordano che erano occorsi 46 anni per metter su ciò ch’egli presumeva di riedificare in tre giorni (Gv 2,20).  D’altronde non era stato nemmeno terminato, ma nel 70 d. C. vien distrutto da Vespasiano.
Nell’arco trionfale di Tito è vistosamente riprodotto il bottinaggio del candelabro d’oro, ma in questo caso si trattava di materiale prezioso e non di marmi. 
 La presenza di colonne del tempio di Gerusalemme - e di quale tempio - nella basilica petrina di Roma va giustificata diversamente.

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